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T.A.R. CAMPANIA, NAPOLI, SEZ. VI, sentenza 5 agosto 2019, n. 4295

    Pubblico impiego – Sanzione disciplinare – Valutazione sulla gravità dei fatti addebitati – Discrezionalità amministrativa dell’autorità disciplinare – Sindacato del giudice amministrativo – Esclusione e limiti  

    La valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati in relazione all’applicazione di una sanzione disciplinare costituisce espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità, salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l’evidente sproporzionalità e il travisamento. L’applicazione del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa e il suo corollario in campo disciplinare – c.d. gradualismo sanzionatorio – non consentono in via ordinaria al giudice amministrativo di sostituirsi alle valutazioni discrezionali compiute dall’autorità disciplinare.

     

    Pubblico impiego – Sanzione disciplinare – Termine di estinzione del procedimento disciplinare – adozione del provvedimento disciplinare

    Il termine di cui all’art.120 del t.u. n.3/1957 può dirsi rispettato con la mera adozione del provvedimento sanzionatorio finale, non dovendosi ritenere necessaria la comunicazione o notificazione, che attiene semplicemente al piano dell’efficacia, atteso il carattere recettizio dell’atto in questione, e non a quello del suo perfezionamento. Infatti, la comunicazione del provvedimento disciplinare costituisce atto integrativo dell’efficacia e quindi non rileva al fine della verifica del rispetto dei termini di massima durata del relativo procedimento concluso alla data di adozione del provvedimento finale.

     

    Massime a cura del dott. Francesco Allocca e dell’Avv. Valeria Aveta

     

    Pubblicato il 05/08/2019

     

    04295/2019 REG.PROV.COLL.

    00756/2019 REG.RIC.

    REPUBBLICA ITALIANA

    IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

    Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

    (Sezione Sesta)

    ha pronunciato la presente

    SENTENZA

    sul ricorso numero di registro generale 756 del 2019, proposto da
    -OMISSIS- -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati …, …, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

    contro

    Ministero dell’Interno, (Questura di …) in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Distrettuale Napoli, domiciliataria ex lege in Napoli, via Armando Diaz, 11;

    per l’annullamento

    previa sospensione, del decreto del Ministero dell’interno n. 333-d/89228 del 08.01.2019

    Visti il ricorso e i relativi allegati;

    Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno;

    Visti tutti gli atti della causa;

    Relatore nell’udienza pubblica del giorno 24 luglio 2019 la dott.ssa Anna Corrado e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

    Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

    FATTO e DIRITTO

    Con il ricorso in esame è avversato dal sig. -OMISSIS- -OMISSIS-, già dipendente della Polizia di Stato, il provvedimento datato 8 gennaio 2019 e notificato il 28 gennaio 2019, con il quale è stata disposta la sua destituzione dal servizio, e con esso la delibera del Consiglio Provinciale di Disciplina del 12 ottobre 2018.

    Il provvedimento impugnato si fonda sulla seguente motivazione “a seguito di un’attività investigativa coordinata dalla Procura della Repubblica di …, veniva sottoposto a perquisizione domiciliare, in occasione della quale non veniva trovato in possesso della propria pistola d’ordinanza, nella circostanza, rendeva dichiarazioni mendaci e fuorvianti al personale operante, il quale, successivamente, accertava che l’arma era stata ceduta, presumibilmente per trarne ingiusto profitto, ad un pregiudicato, in tali occasioni, denotando mancanza del senso morale e dell’onore, poneva in essere una riprovevole condotta in grave contrasto con i doveri assunti con il giuramento”. Giova rammentare che la vicenda traeva origine da una perquisizione domiciliare delegata dall’A.G. effettuata in data 15 marzo 2018 presso l’abitazione e l’ufficio del ricorrente, indagato per i delitti previsti e puniti dagli artt. 416, 318, 319, 476, 479 e 615 ter del codice penale, nel corso della quale non veniva rinvenuta la pistola d’ordinanza del predetto. Dalle indagini emergeva che la stessa era nella disponibilità di un pregiudicato, il quale dichiarava di averla acquistata dal -OMISSIS- circa due mesi prima per la somma di 1000 euro. Il ricorrente era quindi deferito in stato di libertà innanzi alla competente A.G. per peculato e cessione illegale di arma da guerra. L’amministrazione, ritenendo di dover avviare il procedimento disciplinare nei confronti del dipendente, richiedeva alla Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di … l’autorizzazione all’ostensione degli atti del procedimento penale, concesso solo in data 13 aprile 2018. Quindi, con provvedimento del Capo della Polizia datato 17 aprile 2018, notificato il 17 maggio 2018, il dipendente veniva sospeso cautelarmente per gravi motivi disciplinari, ai sensi dell’art. 92 del d.P.R. n. 3/1957, a decorrere dalla data di notifica. Seguiva in data 12 maggio 2018 la notifica all’interessato della contestazione degli addebiti per l’ipotesi disciplinare della destituzione dal servizio ai sensi dell’art. 7, comma 2, nn. 1 e 2 del d.P.R. n. 737/1981. Va pure ricordato che in sede di procedimento, segnatamente in occasione della riunione del 12 ottobre 2018 del Consiglio provinciale di disciplina, il ricorrente presentava una memoria difensiva nella quale affermava che non vi era stata alcuna cessione volontaria dell’arma e del munizionamento in favore di un pregiudicato, amico del proprio nipote, se ne sarebbe impossessato in “…occasione di qualche visita…approfittando delle precarie condizioni fisiche del -OMISSIS-,… a sua insaputa”, chiedendo quindi l’applicazione della “corretta e giusta sanzione della deplorazione di cui all’art. 5 co 1 n.7 del d.P.R. 737/1981”. Il Consiglio di disciplina proponeva, a maggioranza, l’applicazione della sanzione disciplinare della destituzione ai sensi dell’art. 7, punto 1 e 2 del d.P.R. 737/1981, inflitta con l’impugnato provvedimento.

    A sostegno del proposto ricorso il ricorrente deduce innanzitutto eccesso di potere rubricato sotto molteplici profili per non avere, in sostanza, l’amministrazione effettuato “una corretta qualificazione giuridica dei fatti in contestazione, riconoscendo la sussistenza di un’ipotesi di illecito disciplinare diversa e più grave rispetto a quella applicabile”. In altri termini viene ritenuta “incongrua ed inverosimile la ricostruzione dei fatti operata dal funzionario istruttore” che non avrebbe tenuto conto del precario e vulnerabile stato di salute del dipendente a seguito di un intervento chirurgico, in relazione al quale, a causa della lunga convalescenza “… non dovendo attendere a nessun compito di servizio, con negligenza non scusabile effettivamente non attenzionava l’arma”. Anzi segnala il ricorrente che solo “in un momento di lucidità, lo stesso collegava la scomparsa dell’arma alla frequentazione del suo domicilio da parte del…..” ; a suo dire, inoltre, “l’assenza di denuncia di furto è un indizio, se non addirittura una prova, dell’inesistenza di una volontaria cessione dell’arma e, anzi, la conferma della inconsapevolezza, da parte del ricorrente, del trafugamento dell’arma sino al momento della perquisizione”. Di qui, ad avviso di parte ricorrente, la tesi della errata qualificazione dei fatti a sua volta conducente alla eccepita violazione del principio di ragionevolezza e di proporzionalità della sanzione irrogata, in quanto il comportamento imputato al ricorrente sarebbe riconducibile alla sanzione disciplinare della deplorazione di cui all’art. 5, comma 1, n. 7 del d.P.R. 737/1981.

    Con il secondo articolato motivo di ricorso si deduce violazione dell’art. 13 comma 3, dell’art. 20 comma 5, dell’art. 21 comma 3 del d.P.R. n. 737 del 1981 nonché eccesso di potere sotto più profili, lamentando in pratica che la relazione istruttoria conclusiva è “connotata dall’assoluto convincimento personale del funzionario istruttore sulla colpevolezza del ricorrente in merito ai fatti contestati”, denunciando l’omessa allegazione al provvedimento impugnato del verbale relativo alla trattazione orale del Consiglio Provinciale di Disciplina il che avrebbe comportato che l’autorità che ha adottato il provvedimento disciplinare non avrebbe avuto una piena cognizione dell’istruttoria svolta attraverso la lettura della delibera di proposta del consiglio provinciale di disciplina e delle difese dell’incolpato e del suo difensore.

    Con ulteriori motivi di ricorso si deduce violazione dell’art. 9 comma 2 della legge n. 19 del 1990 ed ancora eccesso di potere sotto più profili nonché violazione dell’art. 21 del d.P.R. n. 737/1981 in combinato disposto con l’art. 120 del d.P.R. n. 3/1957. Con dette censure si sostiene l’intervenuta violazione del giusto procedimento per avere l’Amministrazione concluso il procedimento disciplinare oltre il termine di 90 giorni che ad avviso di parte ricorrente si applica anche nella presente fattispecie in cui il procedimento disciplinare non viene avviato all’esito di un procedimento penale definitosi con sentenza di condanna, “bensì promani dal normale esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro…”. Secondo siffatta impostazione, il procedimento disciplinare, iniziato il 15 marzo 2018, “doveva essere concluso entro il termine perentorio del 13.06.2018, mentre invece è stato concluso solo in data 28.1.2019”. E, comunque, con riguardo alla citata disposizione parte ricorrente chiede all’adito Tribunale di valutare la sussistenza della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del detto articolo per contrasto con l’articolo 3 della Costituzione nella parte in cui prevede l’applicabilità del termine perentorio di 90 giorni per la conclusione dei soli procedimenti disciplinari originati a seguito di condanna penale definitiva. Infine, assume il ricorrente l’intervenuta violazione del termine massimo di conclusione del procedimento disciplinare di 270 giorni e così pure la violazione del termine infraprocedimentale di 90 giorni previsto dall’art. 120 del d.P.R. n. 3/57.

    Si è costituita in giudizio l’intimata Amministrazione affermando la infondatezza del proposto ricorso e concludendo perché lo stesso venga respinto.

    Alla pubblica udienza del 24 luglio 2019 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

    Il ricorso non è fondato e va, pertanto, respinto.

    Quanto alle contestazioni che attengono al “merito” della sanzione irrogata, invero la sanzione massima, rileva il Collegio la piena condivisibilità dell’orientamento giurisprudenziale, invero costante, a mente del quale la valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati in relazione all’applicazione di una sanzione disciplinare, costituisce espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l’evidente sproporzionalità e il travisamento, vizi che, nel caso di specie, non ricorrono. Come correttamente rilevato dalla difesa della resistente Amministrazione, l’applicazione del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa e il suo corollario in campo disciplinare – c.d. gradualismo sanzionatorio – non consentono in via ordinaria al giudice amministrativo di sostituirsi alle valutazioni discrezionali compiute dall’autorità disciplinare. Tanto premesso, con riguardo al caso di specie, è un fatto incontestato come in sede disciplinare sia stato accertato che nel corso di una perquisizione disciplinare coordinata dalla Procura della Repubblica di …, emergeva che il ricorrente, in aspettativa per motivi di salute, non aveva la disponibilità della propria pistola e del relativo caricamento, tanto da essere denunciato all’A.G. per peculato e cessione illegale di arma da guerra. Al di là della stessa opinabilità delle argomentazioni addotte dal dipendente per dare una spiegazione al fatto ora ricordato, rimane la estrema gravità della condotta posta in essere dal ricorrente, condotta che l’amministrazione, non irragionevolmente e non irrazionalmente, ha ritenuto priva della più assoluta mancanza del senso dell’onore e della morale, in totale spregio dei doveri assunti con il giuramento. Non ritiene il Collegio configurabile un diverso inquadramento del fatto, come eccepito dal ricorrente, ai sensi dell’art. 5, n. 7 del d.P.R. n. 737/1981, norma questa che prevede la sanzione disciplinare della deplorazione per la grave negligenza nella custodia dell’armamento in dotazione, ipotesi ben diversa da quella in esame. Nella specie, infatti, non si è trattato semplicemente di una negligenza nella custodia, facendo carico proprio al ricorrente, in ragione della qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria, di reprimere il gravissimo reato di detenzione illegale di arma da guerra, considerato che nella specie l’arma è stata ritrovata nella disponibilità di un pregiudicato.

    Anche in ragione di quanto già considerato, deve ritenersi la sanzione irrogata congruamente e sufficientemente motivata, essendo oggettivamente esplicitate le ragioni sottostanti alla sua adozione, attesa la idoneità al riguardo del richiamo per relationem ai “motivi contenuti nell’unita deliberazione del Consiglio Provinciale di Disciplina del 12 ottobre 2018”. In altri termini, si è comunque in presenza di fonte di cognizione identificabile e conoscibile, essendo appunto la delibera allegata al provvedimento e costituendone parte integrante. E sempre sul piano procedurale, neppure può ritenersi essersi verificata una violazione del diritto di difesa del ricorrente, avendo quest’ultimo esercitato il diritto di accesso agli atti ben due volte, sia a seguito della contestazione disciplinare che dopo la prima riunione dell’organo collegiale; in quest’ultimo caso, poi, la riunione per la trattazione orale veniva rinviata proprio per consentire all’incolpato di esercitare il diritto alla difesa.

    Quanto alla questione posta con riguardo all’art. 9, comma 2, della L. 19/1990, giova ricordare che detta disposizione prevede che “la destituzione può sempre essere inflitta all’esito del procedimento disciplinare che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni. Quando vi sia stata sospensione cautelare dal servizio a causa del procedimento penale, la stessa conserva efficacia, se non revocata, per un periodo di tempo comunque non superiore ad anni cinque. Decorso tale termine la sospensione cautelare è revocata di diritto”. Dunque, trattasi di disposizione non applicabile nel caso di specie, nel quale la destituzione non segue il procedimento penale. E infatti lo stesso ricorrente prospetta una questione di legittimità costituzionale della detta disposizione, ove non interpretata estensivamente come applicabile anche oltre l’ambito dalla norma stessa prefigurato, per contrasto con l’articolo 3 della Costituzione nella parte in cui preveda l’applicabilità del termine perentorio di 90 giorni per la conclusione dei soli procedimenti disciplinari originati a seguito di condanna penale definitiva. Quanto all’ambito applicativo della predetta disposizione, vale richiamare la sentenza, n.1393/2019 del Consiglio di Stato, ove si afferma che la stessa “si applica solo quando il procedimento penale si sia concluso con una sentenza di condanna”. Tanto ribadito, la questione è comunque priva del requisito della manifesta fondatezza non risultando la scelta del legislatore di ancorare i ricordati termini alla fattispecie della destituzione susseguente a procedimento penale violativa dei principi di ragionevolezza e logicità invocati dal ricorrente.

    Nel caso di specie in cui, si ribadisce, il procedimento è stato avviato a seguito dell’accertamento di una condotta disciplinarmente rilevante nell’ambito di un’attività di indagine, trova applicazione l’art. 31 del d.P.R. 737/81 a tenore del quale “Per quanto non previsto dal presente decreto in materia di disciplina e di procedura, si applicano, in quanto compatibili, le corrispondenti norme contenute nel testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, approvato con d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3”. Vengono in particolare in rilievo del detto testo unico del 1957, per quanto riguarda l’avvio dell’azione disciplinare, l’art. 103 a mente del quale “L’ufficio del personale che abbia comunque notizia di una infrazione disciplinare commessa da un impiegato svolge gli opportuni accertamenti preliminari e, ove ritenga che il fatto sia punibile con la sanzione della censura, rimette gli atti al competente capo ufficio; negli altri casi contesta subito gli addebiti all’impiegato invitandolo a presentare le giustificazioni” e l’art. 120, il quale stabilisce che “Il procedimento disciplinare si estingue quando siano decorsi novanta giorni dall’ultimo atto senza che nessun ulteriore atto sia stato compiuto. Il procedimento disciplinare estinto non può essere rinnovato”. Orbene, come puntualmente ricordato dalla difesa della resistente Amministrazione, dalla sequenza degli atti risulta che il 16 aprile 2018 vi è la proposta di sospensione cautelare per gravi motivi disciplinari; il 17 aprile 2018 l’emissione provvedimento cautelare (1 giorno); l’8 maggio 2018 la nomina del funzionario istruttore (21 giorni); l’11 maggio 2018 la contestazione dell’addebito (3 giorni); il 17 maggio 2018 la notifica provvedimento sospensione cautelare (6 giorni); il 17 maggio 2018 richiesta accesso atti e proroga termine del dipendente (0 giorni); il 24 maggio 2018 l’ostensione degli atti (7 giorni); il 31 maggio 2018 le giustificazioni del dipendente (7 giorni); il 26 giugno 2018 la relazione del funzionario istruttore (26 giorni); il 10 luglio 2018 il deferimento innanzi al consiglio di disciplina (14 giorni); il 14 settembre 2018 la prima riunione dell’organo collegiale (66 giorni); il 28 settembre 2018 la riunione per trattazione orale, rinviata (14 giorni); il 12 ottobre 2018 nuova riunione per la trattazione orale del CdP (14 giorni); l’8 gennaio 2019 l’adozione del provvedimento espulsivo (88 giorni); il 28 gennaio 2019 la notifica del provvedimento espulsivo (20 giorni). Da tanto conseguendo l’infondatezza dell’assunto relativo all’asserito superamento dei termini del procedimento disciplinare. Quanto, infine, alla questione della notifica del provvedimento, avvenuta in data 28 gennaio 2019, osserva il Collegio che il termine di cui all’art.120 del t.u. n.3/1957 può dirsi rispettato con la mera adozione del provvedimento sanzionatorio finale, non dovendosi ritenere necessaria la comunicazione o notificazione, che attiene semplicemente al piano dell’efficacia, atteso il carattere recettizio dell’atto in questione, e non a quello del suo perfezionamento. Infatti, la comunicazione del provvedimento disciplinare costituisce atto integrativo dell’efficacia e quindi non rileva al fine della verifica del rispetto dei termini di massima durata del relativo procedimento concluso alla data di adozione del provvedimento finale. Rimane da osservare, ferma la natura ordinatoria o, più propriamente, sollecitatoria, dei termini relativi ad adempimenti interni nell’ambito del procedimento disciplinare, che il mancato rispetto del termine di 10 giorni previsto dall’art. 21 del d.P.R. 737/1981 non integra una violazione idonea ad inficiare la legittimità del procedimento disciplinare (parere Consiglio di Stato – Sez. I, n. 566 del 3 febbraio 2012; Consiglio di Stato, Sezione VI, 29 febbraio 2008 n. 757; Consiglio di Stato, adunanza plenaria, 27 giugno 2006, n. 10).

    In definitiva, ribadite le svolte considerazioni, il ricorso va respinto siccome infondato.

    Sussistono tuttavia, attese le peculiarità della questione, giuste ragioni per compensare integralmente fra le parti le spese del presente giudizio.

    P.Q.M.

    Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

    Spese compensate.

    Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

    Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il ricorrente.

    Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 24 luglio 2019 con l’intervento dei magistrati:

    Paolo Passoni, Presidente

    Carlo Buonauro, Consigliere

    Anna Corrado, Consigliere, Estensore

         
         
    L’ESTENSORE   IL PRESIDENTE
    Anna Corrado   Paolo Passoni
         
         
         
         
         

     

    IL SEGRETARIO

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