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Tribunale di Napoli, Sezione specializzata in materia di impresa, ordinanza del 12 maggio 2020

    Marchio registrato – Contraffazione – Rischio di confusione –  Differenza tra contraffazione di un modello e di un marchio – Concorrenza sleale – Pregiudizio

    Per la configurazione della contraffazione il presupposto necessario è dato dalla confondibilità tra i segni utilizzati dal titolare e dal presunto contraffattore, il cui accertamento deve compiersi avendo riguardo all’insieme degli elementi salienti grafici, visivi e fonetici oltre a quelli concettuali o semantici dei marchi. A tal fine, risulta irrilevante sia la differenza di prezzo tra i prodotti sia la buona fede di colui che usi un marchio altrui senza averne il diritto, dal momento che le situazioni soggettive rilevano solo per l’azione personale di concorrenza sleale e non anche per l’azione a tutela del marchio, di natura reale.

    La diligenza dell’utilizzatore informato rileva esclusivamente nell’ambito della tutela del modello, laddove nel caso di segno distintivo occorre aver riguardo alla figura del consumatore medio (meno avveduto dell’utilizzatore informato) che è portato ad un esame fondato sulla impressione più che sulla comparazione.

    Integra una condotta di concorrenza sleale ex artt. 2598 n. 1 e 2 c.c. quella del concorrente che imita servilmente i prodotti dell’impresa altrui, determinando il pericolo di confusione per l’acquirente sulle qualità del venditore e dei servizi da lui offerti.

    Sussiste il pregiudizio derivante dalla 1) sostanziale identità del segno utilizzato con il marchio registrato (tale da indurre il pubblico interessato a porre in relazione il segno ed il marchio), 2) dalla notorietà del marchio e 3) dal conseguimento di un indebito vantaggio.

    Massima a cura dell’avv. Gloria Valeria Ventura e dell’avv. Giancarlo Borriello

     

    R.G. n. 216/20

    TRIBUNALE DI NAPOLI

    III SEZIONE CIVILE

    Specializzata in materia di imprese

    Il giudice designato, dr. Ilaria Grimaldi,

    letto il ricorso cautelare promosso ante causam da … S.p.A. nei confronti di … S.r.l. e di Alfa, depositato in data 9.1.2020; letto  il  proprio  decreto  del  13.1.2020 con cui  sono state disposte  inaudita altera  parte le misure cautelari richieste;

    letta la memoria di costituzione della resistente …S.r.l., depositata all’esito della notifica del ricorso unitamente al suddetto decreto;

    sentite le parti;

    OSSERVA

    1. Il provvedimento cautelare disposto inaudita altera parte va confermato integralmente.

    La società ricorrente ha chiesto il sequestro ex artt. 129 C.P.I. dei prodotti contraddistinti da segni identici o simili al marchio di titolarità della stessa o altrimenti in violazione dei diritti di privativa azionati, nonché il sequestro o, in subordine, la descrizione, di tutti i documenti contabili relativi ai prodotti per cui è causa, oltre l’inibitoria, ai sensi dell’art. 131 C.P.I. e artt. 2599 c.c. e 700 c.p.c., da ogni pubblicizzazione, promozione, offerta di vendita, commercializzazione dei prodotti in contestazione, garantendo gli emittendi provvedimenti da adeguata penale ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c. e art. 131, co. 2, C.P.I. ed, infine, la pubblicazione su quotidiani e riviste di settore.

    Dalla documentazione prodotta risulta che l’istante è titolare di marchio registrato come da domanda del 5.11.2004, rinnovata in data 14.3.2014, consistente in un marchio figurativo composto da due parentesi quadre, di uguali dimensioni, fra loro contrapposte (cfr. all. 3), rielaborato e nuovamente registrato con domanda del 12.4.2011, estesa internazionalmente in data 21.7.2011  (cfr. all. 4), con riferimento in particolare ai prodotti di cui alla classe 25, comprendente – tra gli altri – le cinture da abbigliamento.

    Tale marchio ha acquisito rinomanza, grazie ai cospicui investimenti effettuati dall’impresa titolare, nonché all’estensione geografica, nazionale ed internazionale, del mercato interessato (cfr. all. 5, 6, 7, 8, 13), come del resto riconosciuto anche dalla resistente costituita nel corso del presente procedimento.

    Dai campioni prodotti e dalla rappresentazione grafica delle cinture prodotte e commercializzate dalla ricorrente contrapposta a quelle poste in commercio dalle resistenti, risulta che queste ultime hanno commercializzato cinture con fibbia pedissequamente riproducente il marchio di cui l’istante è titolare esclusiva per il territorio italiano ed internazionale; ciò del resto è confermato anche dall’esecuzione del sequestro concesso inaudita altera parte.

    Ebbene, ai sensi dell’art. 20 C.P.I. (D. Lgs. n. 30/2015), il titolare del marchio registrato gode di tutela nei confronti di qualunque terzo che utilizzi un marchio uguale o simile per prodotti analoghi; per la configurazione della contraffazione è presupposto necessario la confondibilità tra i segni utilizzati dal titolare e dal presunto contraffattore, cioè la possibilità che, mediante l’utilizzo di un segno distintivo uguale o simile, possa determinarsi un rischio di confusione o di associazione per il pubblico.

    Non condivisibili sono le difese della resistente sull’assenza di confondibilità, in particolare in quanto nel caso del marchio di titolarità dell’istante le due parentesi quadre contrapposte sarebbero distanziate, mentre nell’altro caso sarebbero perfettamente aderenti.

    Infatti, le minime variazioni al marchio registrato, come è l’esclusione dello spazio, peraltro minimo, esistente tra le due parentesi contrapposte non sono con tutta evidenza sufficienti ad escludere un rischio di confusione (anche per rischio di associazione tra i segni) ai sensi dell’art. 20 C.P.I..

    Inoltre, va considerato che l’accertamento circa la confondibilità tra marchi in conflitto deve compiersi in via globale e sintetica, avendo riguardo all’insieme dei loro elementi salienti grafici, visivi e fonetici, nonché di quelli concettuali o semantici, ove esistenti (cfr. Cass. civ., sez. I, 27/05/2016, n. 11031).

    Pertanto, nessun rilievo ai fini dell’esclusione della confondibilità, evidente dal raffronto complessivo tra i due segni e l’impressione che gli stessi suscitano, può riconoscersi all’eliminazione del distanziamento tra le due parentesi quadrate contrapposte nei prodotti commercializzati dalle resistenti.

    Né possono essere condivise le difese della resistente in ordine al richiamo alla diligenza dell’utilizzatore informato.

    Invero, nel valutare se sussista contraffazione di un modello e di un marchio, diverso è il giudizio che i due tipi di pubblico destinatario sono chiamati a svolgere: nel caso del modello si tratta di un giudizio analitico, riferito, attraverso la comparazione del nuovo modello con quello preesistente, all’impressione generale che l’utente ricava, anche in dipendenza delle sue conoscenze nel settore merceologico specifico in cui i due modelli sono realizzati; nel caso del segno distintivo, viceversa, il consumatore medio, necessariamente meno avveduto ed informato dell’utilizzatore informato anche se a volte più attento, è portato a un esame essenzialmente sintetico, fatto di impressione più che di comparazione, teso a cogliere gli elementi di concordanza piuttosto che non quelli di difformità, basandosi anche su suggestioni a volte inconsce ed utilizzando comunque un segno che può non coincidere con la realtà in quanto corrisponde a quello che inconsapevolmente il consumatore ha fissato nella propria memoria (cfr. Trib. Torino, 14/03/2008).

    Pertanto, nell’ambito della tutela del marchio, nessun rilievo può avere la considerazione dell’utilizzatore informato, dovendosi aver riguardo all’impressione suscitata dai segni identici o simili nell’utilizzatore medio; ebbene, nel caso di specie, indubbiamente dal semplice raffronto tra i due marchi utilizzati dalle parti in causa, come elemento di prodotti identici, quali la fibbia di cinture si evince la piena confondibilità tra gli stessi.

    Va, poi, aggiunto che il giudizio di affinità di un prodotto rispetto ad un altro contraddistinto da un marchio notorio o rinomato deve essere formulato secondo un criterio più largo rispetto ai marchi comuni che tenga conto della forza individualizzante che il marchio medesimo ha conseguito sul mercato e del pericolo che il consumatore medio attribuisca al fabbricante del prodotto contraddistinto dal marchio rinomato un prodotto ulteriore non rilevantemente distante sul piano merceologico, cosicché il prodotto meno noto si avvantaggia di quello noto e del suo segno (cfr. Cass. civ., sez. I, 27/05/2013, n. 13090).

    Ebbene, nel caso di specie, va dunque confermato il fumus delle richieste tutele atteso che risulta che le imprese resistenti hanno posto in commercio cinture con fibbia pedissequamente riproducente il marchio di cui l’istante è titolare esclusiva per il territorio italiano ed internazionale.

    La pubblicizzazione e la vendita non autorizzati di prodotti contraddistinti da segni identici o simili ai marchi rinomati, come quello che ci occupano, integrano gli estremi della fattispecie di cui all’art. 20, co. 1, nelle tre ipotesi contemplate dalle lett. a, b, e c C.P.I., come di recente modificato, in quanto i prodotti posti in vendita dalle imprese resistente recano un segno del tutto identico al marchio di titolarità dell’istante, utilizzato per prodotti identici, quali le cinture, comprese specificamente nella classe 25, cosa che comporta un rischio di confusione per il pubblico e consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio, con pregiudizio agli stessi.

    Inoltre, la condotta di chi imita servilmente i prodotti di un concorrente e determini il pericolo di confusione per l’acquirente circa le qualità del venditore e dei servizi da lui offerti, rileva sotto il profilo della concorrenza sleale sia ai sensi dell’ art. 2598 n. 1 c.c., sia ai sensi dell’art. 2598 n. 2, comportando appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa altrui.

    Del tutto generiche, poi, sono le contestazioni in ordine alla capacità distintiva del segno, alla notorietà e all’efficacia individualizzante.

    Quanto all’uso delle lettere, nel caso di specie la lettera C, simile alla parentesi quadrata [ , va affermato che ai sensi dell’art. 7 C.P.I. possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa tutti i segni, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purché’ siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese e ad essere rappresentati nel registro in modo tale da consentire alle autorità competenti ed al pubblico di determinare con chiarezza e precisione l’oggetto della protezione conferita al titolare.

    Ancora, nessuna valenza può avere la dedotta buona fede del resistente.

    Invero, le situazioni soggettive quali il dolo, la colpa, la buona fede di chi usa un marchio altrui senza averne il diritto possono assumere rilevanza solo ai fini dell’accoglimento o meno dell’azione personale di concorrenza sleale e di risarcimento del danno proposta contro il responsabile, ma sono del tutto irrilevanti ai fini dell’azione diretta a impedire la contraffazione del marchio, che è un’azione a carattere reale avente ad oggetto immediato e diretto la tutela della titolarità esclusiva del bene immateriale destinato al servizio di un’impresa, nei confronti di chiunque ponga in essere un fatto oggettivamente lesivo di quella titolarità, indipendentemente dalla sua buona fede (cfr. Cass. civ., sez. I, 12/03/2014, n. 5722).

    Inoltre, nel caso di specie, la dedotta buona fede pare da escludere, atteso che la società resistente risulta aver specificamente indicato, nella pubblicità dei propri prodotti, la riferibilità degli stessi al marchio di titolarità dell’istante (“-OMISSIS-”), con ciò confermando la consapevolezza della contraffazione dello stesso e, anzi, l’intenzionalità di agganciarsi alla fama raggiunta dal marchio contraffatto.

    Infine, irrilevante è la dedotta differenza di prezzo tra i prodotti contraddistinti dal marchio di titolarità dell’istante e quelli commercializzati dalle resistenti.

    Invero, la differenza di prezzo non è idonea a eliminare il rischio di confusione, potendo il pubblico del settore di riferimento essere indotto a ritenere erroneamente che un prodotto sia comunque riferibile al titolare del marchio; infatti, l’art. 20, co. 1, lett. b) fa riferimento al “rischio di confusione per il pubblico” e al “rischio di associazione fra i due segni”, che non è escluso dal diverso costo degli stessi, essendo possibile che il consumatore sia comunque indotto a ritenere che la stessa impresa produca (o che imprese comunque collegate producano) a prezzi diversi prodotti di diversa qualità recanti il medesimo marchio (cfr. Cass. civ., sez. I, 25/06/2007, n. 14684).

    1. Sussiste, altresì, l’ulteriore presupposto del pericolo per l’adozione della misura dell’inibitoria dell’ulteriore prosecuzione delle condotte contestate e del sequestro dei prodotti recanti i segni identici al marchio per cui è causa, tenuto conto della sostanziale irreparabilità del pregiudizio derivante dalla prosecuzione dell’attività illecita rispetto alle esigenze di tutela del carattere distintivo del marchio che gode di notorietà, anche a causa delle modalità di vendita on line dei prodotti contraffatti, che comportano una rapida e capillare diffusione e, dunque, indiscriminata propagazione del danno.

    Va confermato, infatti, che dalle violazioni riscontrate deriva un pregiudizio indicato come “diluizione”, che si manifesta quando risulta indebolita l’idoneità del segno distintivo ad identificare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato, nonché un pregiudizio arrecato alla notorietà, designato con il termine di “corrosione”, che si verifica quando i prodotti o i servizi per i quali il segno identico o simile è usato dal terzo possono essere percepiti dal pubblico in modo tale che il potere di attrazione del marchio ne risulti compromesso e, infine, il pregiudizio rappresentato dal conseguimento di un indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio, detto anche “parassitismo”, che va ricollegato non al pregiudizio subito dal marchio, quanto piuttosto al vantaggio tratto dal terzo dall’uso del segno identico o simile al marchio (cfr. Cass. civ., sez. I, 17/10/2018, n. 26000).

    Nel caso di specie, il pregiudizio deriva dalla sostanziale identità del segno utilizzato dalle imprese resistenti con il marchio di titolarità dell’istante, che comporta il pericolo che il pubblico interessato mette o può mettere in relazione il segno ed il marchio, stabilendo un collegamento tra gli stessi, nonché può individuarsi un pregiudizio alla distintività ovvero alla rinomanza e notorietà del marchio ed, infine, il conseguimento di un indebito vantaggio connesso all’illegittimo uso del segno costituente contraffazione. Si tratta di pregiudizi, tutti, che ben difficilmente potrebbero essere reintegrati con un risarcimento di natura economica.

    In conclusione, dunque, le misure cautelari concesse inaudita altera parte vanno confermate.

    Non si ritiene, invece, in base alla natura cautelare del giudizio, di disporre la richiesta pubblicazione del provvedimento su quotidiani e riviste specializzate, non sussistendo i presupposto dell’art. 126 C.P.I..

    1. La regolazione delle spese segue la soccombenza e viene effettuata come in dispositivo.                                                       P.Q. M.

    –              Conferma i provvedimenti cautelari emanati con decreto del 13.1.2020;

    –              Assegna il termine di giorni sessanta per l’instaurazione del giudizio di merito;

     

    –              Condanna le società resistenti in solido al pagamento delle spese sostenute dalla società ricorrente, che liquida in € 1.034,02 per spese esenti ed € 6.000,00 per compensi, oltre rimborso spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

    Si comunichi.

    Napoli, lì 12.5.2020.                                                                                                            Il Giudice

    Ilaria Grimaldi

     

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